La seconda vita della Saracena, alla scoperta del restauro che ha salvato il capolavoro di Luigi Moretti | Open House Roma

La seconda vita della Saracena, alla scoperta del restauro che ha salvato il capolavoro di Luigi Moretti

Un recupero complesso torna a far brillare la villa a Santa Marinella che l'architetto usò come laboratorio nel suo doppio ruolo di intellettuale e progettista.
 
di Laura Calderoni
 
fotografie di Giorgio Pasqualini

Metà anni Cinquanta, estasi da boom economico, feste, auto sportive, divismo e paparazzi: Santa Marinella è conosciuta come “la perla del Tirreno” e sfida Saint Tropez e Sanremo per il primato di luogo privilegiato dell’alta società internazionale.

Scelta da Giorgio Bassani per la prima stesura de Il Giardino dei Finzi Contini, scritto nell’Hotel Le Najadi, buen retiro della coppia Bergman-Rossellini che ospitano nella loro bianca villa sul mare Gregory Peck in pausa dalle Vacanze romane, Rock Hudson, Marlon Brando e Federico Fellini e Dino Risi che gira alcune scene de Il sorpasso proprio nella piccola stazione della località balneare, Santa Marinella diventa in pochi anni luogo d’elezione anche per i romani che contano; non c’è quindi da stupirsi se Francesco Malgeri chiama l’amico Luigi (Walter) Moretti per progettare la villa della figlia Luciana, divenuta principessa dopo il “chirurgico” matrimonio con Don Nicolò Maria Pignatelli Aragon Cortès.

Malgeri è un giornalista di lungo corso, direttore del Secolo XIX prima e del Messaggero poi, fedelissimo di Mussolini fino al 1941, quando viene epurato e poi imprigionato a Regina Coeli per le sue posizioni antitedesche. Subito dopo la guerra emigra in Brasile, per tornare in Italia agli inizi degli anni Cinquanta e riprendere la professione di giornalista fino a diventare presidente dell’Ansa sul finire della carriera.

Come Malgeri, anche Moretti ha una storia personale e professionale segnata dalla sua adesione al regime, ragione per cui le sue opere saranno ignorate se non osteggiate dalla critica architettonica, almeno fino agli anni Novanta: Moretti è stato infatti un fascista convinto, mai pentito, forse repubblichino; ha guidato a partire dal 1933 l’ufficio tecnico dell’Opera Nazionale Balilla, ovvero il maggiore strumento di propaganda del regime per “educare” i giovani italiani al fascismo e, nel dopoguerra, dopo una breve parentesi a San Vittore, riprende con successo l’attività professionale anche grazie alle sue amicizie pregresse, fondando una sua società di costruzioni e diventando l’architetto di riferimento della vaticana Società Generale Immobiliare.

Allo stesso tempo però Moretti è un intellettuale raffinato e progressista, fondatore e direttore della rivista Spazio – Rassegna delle arti e dell'architettura dove pubblica una decina di suoi saggi, direttore dell’omonima galleria dove ha esposto anche Jackson Pollock, fondatore dell’Istituto Nazionale di Ricerca Matematica e Operativa per l’Urbanistica dove porta avanti le sue ricerche sull’architettura parametrica e, con il critico Michel Tapié e l’amico Franco Assetto, fondatore dell’International Center of Aesthetic Research, luogo di sperimentazione per le arti. Moretti ha una voracità intellettuale affiancata a una eccezionale capacità imprenditoriale, ed è forse proprio questa sua figura di imprenditore-intellettuale, poco impegnato politicamente, ma sicuramente schierato, ricercatore appassionato e raffinato esteta, architetto di cantiere e fine saggista, a renderlo tanto sfuggente e scomodo al mondo accademico del dopoguerra.

 Quando Moretti riceve l’incarico per realizzare La Saracena ha da poco pubblicato sulla rivista Spazio il suo saggio Strutture e sequenze di spazi che nell’incipit riassume alcuni caratteri che saranno poi sviluppati nel progetto della villa: “Una architettura si legge mediante i diversi aspetti della sua figura, cioè nei termini in cui si esprime: chiaroscuro, tessuto costruttivo, plasticità, struttura degli spazi interni, densità e qualità delle materie, rapporti geometrici delle superfici e altri più alieni, quali il colore…”.

La Saracena è dunque una sequenza di spazi che si dipanano fino al mare: spazi in cui lo sguardo viene guidato in una danza inarrestabile, accompagnato dalle aperture prospettiche, dalla scomposizione delle superfici fino a placarsi sull’orizzonte marino.

Dalla strada appare come una cattedrale calcarea, con la bassa recinzione che fa da misura ai volumi arretrati; da un piccolo cancello si accede al recinto-giardino ellittico, in cui l’alterazione della simmetria, data dallo sfalsamento dei due lembi dell’ellisse e dal decentramento del vestibolo, dà il via a una inarrestabile concatenazione di spazi, chiaroscuri, superfici che si addensano e si distendono attraverso la materia scabrosa dell’intonaco bianco, reso vivo dalla luce che su di esso si scompone. 

Sarebbe poco interessante descrivere pedissequamente questa sequenza, ma proviamo ad affacciarci sul grande atrio, appena varcata la soglia del vestibolo ombroso, per una prima timida occhiata: da qui lo sguardo è subito raccolto dal cannocchiale visivo verso il giardino interno e, seguendo il percorso del taglio di luce orizzontale, viene proiettato in una corsa a perdifiato verso la galleria, accelerato dalla sequenza serrata delle finestre a nastro, scomposto dai tagli di luce che fanno volare il soffitto e le pareti, investito dalla forza centripeta del volume circolare della zona pranzo, ammaliato dalla linea dell’orizzonte che attraversa lo spazio distendendosi lungo le superfici e diventando parte dello spazio interno.

Se invece volgiamo lo sguardo alla nostra sinistra, verso il volume alto che accoglie la zona notte, veniamo catturati dal moto ondoso della scala che si stacca dalle pareti e si inerpica verso l’alto, sostenuta dalla luce che penetra dalle fenditure sulla superficie muraria e dall’oculo in alto, che lascia intravedere uno spicchio di cielo.

Ecco, abbiamo appena fatto un passo all’interno della villa, ci siamo timidamente affacciati sulla sua soglia, che già una vertigine ci ha colto. Allora abbassiamo lo sguardo e ci soffermiamo sul pavimento in ceramica smaltata su cui la luce si riflette rendendo acquosa la superficie e facendo emergere una costellazione di delicati disegni di uccelli ed elementi arborei, contiamo quante decorazioni riusciamo a scorgere da qui, seguiamo il percorso delle fughe fino ai nostri piedi dove, con un po’ di stupore, scorgiamo una piccola chiave dipinta come invito ad aprire le porte della villa e a lasciarci trasportare dalla sua danza.

Moretti lavora alacremente al progetto, disegnando tutto, dai particolari degli infissi alle soluzioni strutturali di dettaglio, agli arredi dei diversi ambienti; basti pensare che nel Fondo Luigi Moretti conservato all’Archivio Centrale di Stato sono presenti ben dieci versioni del divano dell’atrio, i cui braccioli, da quanto riportato sui suoi schizzi, non dovevano interferire con la vista verso il mare godibile dalla grande finestra. 

Moretti considera il progetto per La Saracena un laboratorio in cui sperimentare la sua duplice natura di intellettuale e architetto, ibrida l’architettura pompeiana con la casa mediterranea, il Barocco con le sperimentazioni di Gaudì, l’arte informale con la matematica.

Un mondo complesso che apre a molte riflessioni, che destabilizza e affascina, che si dipana in molte strade da percorrere, ma che si materializza nella bellezza di un’architettura in cui, come scrive lo stesso Moretti, “si leggono direttamente le qualità emotive delle murature come tali, cioè come peso, come disegno rastremato col diminuire dei carichi, come forza di sostegno e di spartizione degli spazi. Forse il segreto della costruzione è proprio in questa semplicità di lettura in ogni sua parte del fatto muro”.

Sessant’anni dopo questa complessità deve essere stata parte della sfida raccolta dall’architetto Paolo Verdeschi, chiamato a restaurare la villa.

“Il problema maggiore per il restauro - ci dice Verdeschi - è stato il reperimento dei dati. Moretti disegnava molto e sulla Saracena abbiamo molto materiale, ma era anche un architetto che lavorava in loco insieme alle maestranze e ai collaboratori; molte scelte sono state fatte sul cantiere stesso”. 
Mentre ci mostra una maquette che ha realizzato appositamente per studiare la struttura della pensilina esterna, che proietta l’intera villa verso il mare e senza la quale la “grande nave Saracena” rimarrebbe a terra, continua: “Di questa pensilina, per esempio, abbiamo trovato solo uno schizzo in sezione e due foto d'epoca laterali. Sappiamo che è crollata pochi anni dopo la sua realizzazione grazie a due foto poloraid trovate all’interno di un testo nella libreria del soggiorno. Con queste poche informazioni abbiamo cercato di riprodurre le dimensioni delle travi e il sistema tecnico degli stralli scelto da Moretti per questo "traliccio" che ricorda le alberature di una barca a vela. Abbiamo quindi scelto di ricostruirne l’immagine, con materiali capaci di resistere ai forti venti che si abbattano sulla testata della Saracena.

Il tema della nave è un tema caro a Moretti, tanto che lo spazio tra la veletta e la vetrata dell’intera galleria era occupato da una serie di modellini di navi; il mare che Moretti amava sarà anche il suo ultimo paesaggio: morirà infatti di infarto nella sua barca al largo all’isola di Capraia nel 1973.

Man mano che ci addentriamo nel racconto del cantiere di restauro, che con certosina pazienza Verdeschi ha seguito per due anni e mezzo, ci sembra sempre più chiaro come Moretti intendesse La Saracena come un laboratorio di sperimentazioni, una sorta di “bottega d’artista” in cui testare soluzioni tecniche e manipolazioni spaziali. Un altro dei temi inediti emerso durante il cantiere è il colore, anzi, “i colori di Moretti”: l’arancione corallo della parete che fa da cerniera tra la galleria e la vetrata sul giardino, il rosa pallido del piano interrato e del muro basso della galleria, l’arancione fuoco della balaustra della scala, il verde chiaro delle porte delle camere di servizio e della rubinetteria, il rosa deciso delle guarnizioni delle porte delle camere fatte con il raso, il celeste della cucina. Ma perché allora oggi la villa ci appare in tutto il suo astratto biancore?

Spiega Verdeschi: “I colori che abbiamo trovato durante il restauro erano stati coperti, ma non sappiamo se da Moretti stesso, che dopo aver provato varie cromie non si era convinto delle scelte, oppure dai proprietari. Non abbiamo nessuna testimonianza. Resta il fatto che Moretti ha più volte affrontato il tema del colore in molti suoi progetti, e anche nella Saracena”.

La Saracena non è un’architettura “immediata”, l’impianto scenografico che fa del mare il suo fondale privilegiato è solo il primo di una serie di concatenazioni, rimandi, spazialità che si scoprono pian piano. Particolari che sfuggono al primo sguardo o che è possibile capire solo vivendola, osservandone i cambiamenti della luce che gioca con i volumi e le superfici, sfiorando le superfici lisce o scabrose, modulando il rumore del mare attraverso la galleria.

Andiamo quindi alla ricerca di chi la Saracena l’ha vissuta come “casa”: Eleonora e la sua famiglia da circa trent'anni passano qui le loro vacanze e il tempo libero. “Quando mio padre la acquistò nel 1988, la villa aveva già molti problemi manutentivi, la vicinanza con il mare aveva fatto molti danni e facemmo solo alcuni interventi per tamponare quelli maggiori”. La Saracena è un’architettura fragile che ha bisogno di cure costanti e di investimenti cospicui per mantenere intatte le scelte fatte da Moretti con tecnologie che risalgono agli anni Cinquanta. “Diciamo che come casa al mare non è l’ideale, e per questo mi sono decisa a fare un lavoro di recupero più strutturale, ad investire molto, proprio per restituire La Saracena a una fruizione diversa, non solo come casa di villeggiatura per la mia famiglia, ma anche come luogo vivo dove organizzare eventi, mostre, visite, convegni”.  Una fruizione che metta insieme l’idea di monumento da tutelare a quella di spazio attivo e vivo, aggiungiamo noi: la Saracena potrebbe diventare una “casa museo” sul modello della Villa Savoye alle porte di Parigi, essere riconosciuta per la sua importanza nella storia dell’architettura e raccontare l’opera di uno degli architetti italiani più talentuosi e controversi, un architetto che ha attraversato, professionalmente, quarant’anni di storia italiana, dagli anni Trenta ai Settanta.

“Fare colazione sulla terrazza verso il mare, leggere al pomeriggio nel giardino circolare all’ingresso che è molto ventilato, riposare nella terrazza del primo piano così silenziosa e protetta, passeggiare nella galleria…” sono le cose che Eleonora ama fare di più a La Saracena. Ancora una sequenza, una concatenazione di spazi, luce, suoni. Architettura e vita.

Open City Roma ha iniziato una collaborazione con la proprietà per costruire un percorso di valorizzazione e fruizione della Villa Saracena.

Al progetto di restauro hanno collaborato gli architetti Flavio Fiorucci, Giulia Seppiacci e Giulio Valerio Mancini. E le maestranze: Edilperfect per le opere murarie, S.T.A.F. per i nuovi infissi in legno, il falegname Felice Minervino per il restauro degli infissi in legno, Foschi Costruzioni per le strutture in ferro, Starglass per i vetri.  

Quest'articolo fa parte di Rooms, progetto editoriale ideato da Open City Roma e curato in collaborazione con Cieloterradesign.

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